lunedì 25 ottobre 2010

Che stupide le automobili

Guido Viale - 02/04/2007

Fonte: La Repubblica

“La Repubblica” anticipa un brano del saggio di Guido Viale Vita e morte dell’automobile, dove l’autore adotta un approccio storico per analizzare l’evoluzione dell’uso dell’auto.
La sostituzione dei cavalli, dei carri e delle carrozze, iniziata negli anni Venti, ebbe il suo pieno sviluppo negli anni Cinquanta. L’automobile divenne un simbolo della conquista della mobilità urbana di massa, percepita come strumento di libertà. Oggi questo simbolo si è rovesciato e il traffico è divenuto una delle realtà in cui sentirsi imprigionati.
Secondo Viale, tra i gravi danni causati dalle automobili, non vi è solo l’inquinamento, ma anche l’occupazione di strade e piazze sottratte alla vita degli uomini.

È noto che in quasi tutte le città italiane negli ultimi anni è ulteriormente diminuito il numero dei passeggeri sui mezzi pubblici e, siccome è improbabile che si sia ridotta la mobilità urbana complessiva, questo non può che significare che un maggior numero di persone è stato in qualche modo obbligato o indotto a far ricorso alla propria macchina. Il che non può che comportare un ulteriore scadimento della qualità del servizio pubblico, e un ulteriore aumento del traffico privato, e così via, senza fine. [...]
Esiste invece un metodo sicuro per valutare - anche se solo «soggettivamente» - se il traffico privato è aumentato o diminuito negli ultimi tempi, e consiste nel guardare non le auto in movimento, ma quelle ferme, cioè parcheggiate (negli spazi «giusti», o in sosta vietata, o in seconda o terza fila, o sul marciapiede) nei luoghi che frequentiamo più spesso. E se siamo automobilisti, il metodo migliore per valutare - sempre «soggettivamente» - questo andamento, è chiedersi se è più facile o più difficile parcheggiare rispetto ad alcuni anni fa; se ci si mette più o meno tempo a trovare un posto; se ci riteniamo più o meno spesso «costretti» a parcheggiare in sosta vietata. Ciascuno, a questa domanda, sa benissimo come rispondere.
L’auto privata è il mezzo di trasporto più stupido che ci sia: promette la libertà e ti imprigiona nel traffico - e per di più in una corazza di lamiera, in mezzo ai gas più mefitici che ci siano. È stata inventata per agevolare gli spostamenti e rappresenta oggi il principale ostacolo alla mobilità, sia in città che fuori porta. È sempre più dotata di comfort e apparati di sicurezza, ed è una delle principali cause di scomodità della vita moderna e di incidenti. [...]
L’automobile viene esaltata come massima espressione della libertà di movimento, ma la poca libertà di cui ancora fruisce è il portato della rigidissima regolamentazione a cui è ormai sottoposto il traffico. Basta che le regole non vengano rispettate, o che si blocchino i semafori, o che i vigili non intervengano al momento opportuno, e la mobilità di un’intera città rischia di bloccarsi. L’anarchia di cui può godere il singolo automobilista è solo un prodotto della rigida regolamentazione del traffico.
Dell’auto si continua a dire che inquina, e per questo si cercano le soluzioni tecnologiche a minore impatto ambientale - minori consumi, auto elettrica, a metano, ibrida ecc. - molte delle quali non fanno che trasferire la fonte dell’inquinamento da un punto all’altro. Ma il guaio peggiore dell’auto non è l’inquinamento, ma il consumo di spazio. Trasformare le strade e le piazze in uno scolo per auto significa sottrarle agli umani: cacciare gli uomini, le donne, e soprattutto i bambini e gli anziani, per far posto alle protesi meccaniche degli automobilisti: di esseri nati bipedi e trasformati in robot a quattro ruote.
Bisogna convincersi che l’auto, come mezzo di trasporto privato, non ha futuro. Che possiamo procrastinarne la fine con i marchingegni e gli incentivi più vari; ma solo per poi accorgerci che abbiamo buttato una montagna di denaro (pubblico e privato), di tempo, di risorse (intellettuali e ambientali) in un pozzo senza fondo. Che se anche soltanto alcuni dei cosiddetti paesi in via di sviluppo (per esempio la Cina, o l’India, o il Brasile) raggiungessero il tasso di motorizzazione dell’Italia, l’intera superficie del pianeta non basterebbe a contenere le auto, né l’atmosfera terrestre, quand’anche surriscaldata a temperature roventi, sarebbe in grado di assorbire le loro emissioni.
Naturalmente, per convincerci che l’auto non ha futuro non bastano le prediche; occorrono dimostrazioni pratiche che provino che ci si può spostare più in fretta, più comodamente, a costi minori, con maggior sicurezza, con soluzioni diverse: il potenziamento del trasporto pubblico di massa - treni, tram, autobus, metropolitane (leggere) ecc. - e l’introduzione di tutte quelle soluzioni flessibili che rendono possibili gli spostamenti porta-a-porta senza dover ricorrere all’auto propria.
Quello che è mancato nel dibattito sulla crisi attraversata dalla Fiat è un approccio storico al fenomeno auto, che non è una realtà eterna, ma ha avuto un inizio e può avere - o sta avendo - una fine. Cent’anni fa l’invenzione del motore a combustione interna aveva dato avvio alla progressiva sostituzione dei cavalli, dei carri e delle carrozze con i veicoli motorizzati nei percorsi urbani e in quelli extraurbani secondari (cioè non serviti dalla ferrovia).
Questo processo si è sviluppato nel corso di trent’anni negli Stati Uniti, di cinquanta in Europa, e di cento nel resto del mondo (tanto che in alcuni paesi è ancora in corso). I vantaggi erano indubbi: le automobili non sporcano la strada, richiedono meno manutenzione e sono più veloci di un animale. Prima dell’auto c’erano già tecnologia, mestiere - cioè professionalità - e una quota non irrilevante di business e di occupazione nella costruzione di carri e carrozze; tanto che la nascente industria automobilistica si era appropriata di alcune innovazioni sviluppate in quel campo: telai, balestre, soffietti, timoni ecc. Ma nessuno, mano a mano che l’automobile si faceva strada - innanzitutto nel trasporto di merci e nella mobilità rurale; poi nel trasporto di lusso -, ha mai pensato di sostenere il traino animale con incentivi e politiche ad hoc.
La conquista della mobilità urbana di massa, e non più solo di élite, da parte dell’auto negli Stati Uniti - anni Venti e Trenta del Novecento - è invece un’altra storia. A quell’epoca il trasporto pubblico si era già diffuso grazie a tram e metropolitane che viaggiavano su rotaie e sfruttavano la propulsione elettrica, due soluzioni che hanno bisogno di un tracciato fisso. Per scalzarle a favore della motorizzazione privata, la grande industria statunitense dell’automobile aveva comprato a una a una le società private - o, più spesso, municipali - che gestivano il trasporto pubblico locale per poi chiuderle. Chi voleva muoversi doveva comprarsi un’auto. In Italia lo smantellamento dei binari dei tram è continuato fino alla fine degli anni Settanta; poi ci si è accorti che era un errore.
L’auto come veicolo pressoché esclusivo della mobilità interurbana è stata invece imposta negli anni Cinquanta, innanzitutto negli Stati Uniti, con la costruzione di una rete nazionale di autostrade, ricalcata su quella tedesca degli anni trenta, costruita essenzialmente per ragioni belliche, ma rimasta il modello insuperato di tutti i successivi programmi di lavori pubblici (governi italiani compresi) a livello mondiale.
Con l’imposizione dell’auto come soluzione privilegiata di mobilità, si sono andate affermando anche le principali caratteristiche dell’epoca in cui viviamo: individualismo, consumismo, sprawl urbano (o città diffusa) e taylorismo (cioè lavoro ripetitivo, parcellizzato e controllato meccanicamente).
L’auto ha stravinto, ma è da tempo soffocata dal suo stesso successo: continua a invadere tutto il territorio disponibile, ma ogni auto in più non fa che sottrarre «spazio vitale» alle altre; scarica i propri miasmi nell’atmosfera, ma il cielo, che per gli antichi era una sfera di cristallo e da Copernico in poi uno spazio infinito, si è dimostrato incapace di contenerli tutti. Inoltre l’auto non è più in grado di mantenere quello che aveva promesso: la libertà di andare dove si vuole si è trasformata nella clausura dell’imbottigliamento; la possibilità di partire quando si vuole nella rigida programmazione degli spostamenti per evitare gli ingorghi; l’indipendenza dai tracciati rigidi dei binari nella costrizione dei sensi unici, delle zone vietate o a traffico limitato, nei percorsi che si avvitano su se stessi per scoraggiare l’afflusso; la velocità nella lentezza della regolamentazione semaforica, delle code, della quotidiana ricerca di varchi e di parcheggi.

Guido Viale, Vita e morte dell’automobile, Bollati Boringhieri, pp. 176, € 12.

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