venerdì 11 giugno 2010

Mostra degli appunti grafici e plastici di Pixon

Metafore di Pixoŋ
Appunti grafici e plastici tra 1995 – 2010
1° commento
… l’arte permette di percorrere luoghi dall’anima irraggiungibili …









Sulla riva sinistra del fiume Stella - 12 giugno 2010

GIOCARE OLTRE TOCCANDO CARTOGRAFIE CARICATURALI?
Esprimersi con mezzi visivi equivale in molti casi al riconoscimento dell’inefficacia e insufficienza delle parole.
Gli umana fanno cose e le cose non sono prodotti della voce e della lingua ma delle mani. Fare cose e rappresentare cose appare nelle vicende della nostra specie molto, molto prima della scrittura. Forse abbiamo imparato a dire perché abbiamo imparato a mostrare. Mostrare comporta mettere in condizione di guardare e toccare. La vicenda artistica di Pixon forse trova il proprio recinto ideale e ideologico in quelle due azioni: guardare e toccare che nella sua gamma si traducono in disegnare e rendere plasticamente.
Se vedessimo solo i disegni e le tavole di Pixon saremmo tentati di dire che vi è in lui una ritrosia della realtà: la realtà è così piena che non ha senso riprodurla similarmente a quella che è. Essa si autoproduce da sé e si fa guardare da sé e toccare da sé. Allora la rappresentazione è una trasfigurazione, se volete una realtà parallela o, secondo il nome che egli ha voluto dare alla sua mostra, è una Metafora, ossia un portare meta, vale a dire oltre. Dove stanno le cose diverse, le cose con cui giocare, giocare con lo sguardo e giocare con le mani.
Avvertendo però che nel mondo parallelo del far vedere si può vedere con il segno e con il colore.
Sono due giochi diversi, entrambi comunque densi di senso e di gioco. Il segno è il gioco del condensare una traccia distinguendola da un fondo che si perde. Il colore è una strategia per accentuare le differenze. Ogni diffusione di colore declina un campo di differenza. Ma Pixon si diverte a giocare con i colori che si affratellano, si sfumano l’uno sull’altro, al punto che non ci sono talora colori netti ma una gamma continua di colori prossimi, con vocazione massima all’ossimoro: quello della monocromia colorata.
Che il di-segno sia un gioco lo si coglie anche dai rimandi culturali fatti con naturalezza e nella produzione si possono cogliere accenti futuristi, metafisici, bauhausiani alla Kandinsky e alla Klee, ma presi per gioco, senza niente di impettito in quanto essi si fondono in una particolare atmosfera naive, che non è la ricerca dell’innocenza, Pixon infatti sa che il mondo è complesso, è una macchina ed è fatto di macchine, una macchina che si manifesta come una black box di cui si colgono alcuni esiti, ma non il core profondo inattingibile. Eppure l’animo umano vi si approccia con un tratto di giocoliere che gioca senza possedere all’apice della maestria sia il gioco che il giocattolo e, pertanto, la realtà non è quella spigolosa del dato, ma quello sfumata del sogno o della finzione ludica.
Pixon, pur cogliendo la complessità del reale, non intende giocare in un luogo senza materia e di impalpabili visioni, come potrebbe far credere se vedessimo solo la sua produzione di disegno o quella pittorica. Le azioni non si risolvono nel fare per mostrare, ma anche in quella del fare per toccare. Ecco allora la seconda gamma di produzione: le sculture, o meglio gli oggetti tattili, quelli che conosci non tanto perché li guardi, ma perchè li perlustri con le mani e cogli che le mani sono esse stesse oggetti molteplici, in quanto accolgono una forma d’insieme, eppure polpastrello per polpastrello stanano la plasticità, la rugosità, le anfrattuosità e le concrezioni dei dettagli. E ci si accorge allora che i disegni e i dipinti di Pixon hanno una loro autonomia se li si guarda isolati, come produzione a sé, se accostati invece agli oggetti da toccare perdono quasi immediatamente la loro natura autonoma e diventano strumenti, o meglio mappe, cartografia con cui fare il viaggio verso gli oggetti ‘manuali’ e rivelarne la natura concettuale e la geometria che, con contorcimenti, non ama rinserrarsi nelle semplificazioni cartesiane, nello stesso tempo però non intende affatto prendere la fascinazione fuorviante dell’irrazionale.
Vi è un altro aspetto che la produzione di Paolo evidenzia ed è la dimensione. Si va dal meccanismo riferito alla meccanica classica degli ingranaggi, all’orizzonte formale dei primordi biologici delle cellule e del mondo organico microvisivo fino alle spirali di nebulose e agli arcipelaghi di stelle o allusioni cosmiche. Soprattutto nella produzione plastica, ma pure nella ‘cartografia disegnata, tutto si fa paesaggio, cioè scenario che contiene il molteplice e un mondo di convivenze artificiali e ‘naturali’ di area vasta. Ma un paesaggio che allude al tempo, come il tempo fosse sempre passato e i paesaggi siano sempre divenuti già paesaggi fossili. Il vivere e il fare, nel momento in cui si sono realizzati, non scompaiono, ma divengono traccia, cioè tempo fossile fatto di cose. E allora, mentre il colore rimane squillante quando accenna alle cose vive, nel tempo fossile la tavolozza si tinge di monocolore, ossia di tempo sottratto agli attimi. Su tutto ad ogni buon conto libra sovrano il sorriso e i contorti mascheroni, soprattutto, sembrano dire: “ma via non è poi proprio così, c’è qualcosa che ci sfugge, qualcosa che va oltre, ossia tutto è una metafora, una metafora non troppo seria, una caricatura, ossia una metafora che ride”. Caricature da prendere in mano e toccare per accorgersi che gli oggetti sono cose e la realtà è oltre. Essa gioca a nascondino. Pertanto il mestiere più serio risulta il gioco. Quello che va oltre la realtà, fa capriole di meta. E la materia intima forse è immateriale, simulata in evocazioni di culture altre, dove non è estranea la parola Pixon.
Gabriele Righetto

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